Il tema della famiglia e delle iniziative legislative che a vario titolo ne stanno insidiando pericolosamente l’identità genera confronti ed infiamma dibattiti nei più diversi contesti, imponendosi come questione cruciale per l’uomo del terzo millennio.
“Quale famiglia” e “quale umanità” sono le domande alle quali ci sentiamo tutti chiamati a dare risposta, ciascuno interpellando la propria educazione, coscienza, formazione culturale e convinzione religiosa o anche solo etica.
Difficile dire qualcosa che non sia già stato detto da altri in questo ampio contesto che coinvolge davvero tutti, perché tutti riguarda; eppure mi sembra manchi la risposta ad una domanda che spesso viene rivolta a chi, come me, è contrario all’adozione di leggi come l’ormai noto progetto Cirinnà sulle unioni civili: “ma a te che cosa cambia se la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna coi loro figli viene equiparata alle unioni civili di persone dello stesso sesso, magari con figli avuti con il contributo di donatori di gameti o madri surrogate?”
E’ una domanda che provoca il mio senso civico a giustificarsi e mi costringe a chiedermi se la mia istintiva contrarietà alla proposta equiparazione abbia radice in un sentire che mi divide o mi unisce alla collettività di cui faccio parte, comprensiva anche di coloro che la pensano in modo diametralmente opposto.
Provo, allora, a partire dalla mia storia, forse è quella che mi condiziona.
Sono nata da una coppia che aveva fatto del matrimonio un vero indissolubile progetto di vita e mi ha cresciuto offrendomi, con la maternità e la paternità, l’esempio di un amore non idealizzato né ideale, ma concreto, fatto di sentimenti e di volontà, di appartenenza reciproca nella libertà, di momenti sereni e momenti difficili, di instancabile fiducia nel domani. Ho ricevuto un’educazione attenta alla mia femminilità ed ai miei diritti, che mi ha aiutato a maturare una formazione culturale e lavorativa e non ha soffocato il mio desiderio di conciliarla con matrimonio e figli.
Ho vissuto la fraternità grazie alla presenza di un fratello maggiore con il quale ho imparato a condividere tutto, compreso il cammino per crescere liberi e diversi dentro una stessa storia.
Ho sposato un uomo che ha saputo dare alla mia vita un’identità coniugale, insegnandomi che non c’è libertà senza legami forti ed ufficiali, che il matrimonio tra un uomo e una donna non è solo un fatto privato e che la nascita dei figli conferma quell’intuizione di eternità che l’amore rivela agli sposi sin dall’inizio della vita in comune.
Ho avuto due figli che sono cresciuti consapevoli di poter contare su un capitale iniziale rappresentato da un padre e da una madre che si vogliono bene e si rispettano, che sono interscambiabili per molti aspetti pratici del quotidiano ma mai completamente quanto allo sguardo sulla vita, che il maschile e il femminile volgono in modo misteriosamente ed insostituibilmente complementare.
A fronte di tutto questo potrei, in effetti, chiudermi nel ristretto contesto della mia personale storia, forse banale ma certamente appagante e disinteressarmi di ciò che accade alla istituzione “famiglia” oggi; potrei lasciare che leggi, conferenze, scuole, libri e in generale tutto ciò che fa cultura cambino, con la famiglia, quell’identità umana che fino ad oggi mi era apparsa non solo mia ma universale.
Ma ecco entrare in gioco il mio senso della giustizia e del diritto. Non ci sto a lasciare che altri siano privati intenzionalmente di ciò che è toccato naturalmente in sorte ai miei nonni, ai miei genitori, a me ed ai miei figli; provo un naturale istinto di rivolta, come diceva nell’ottocento il giurista tedesco Gustav Rumelin, nel vedere il forte maltrattato dal debole. Si, il forte maltrattato dal debole, perché questo sta accadendo ai giorni nostri.
Leggi e proposte di legge presentate in tutto il mondo come strumenti di tutela dei deboli (le coppie di persone dello stesso sesso, che sarebbero deboli in quanto private del diritto di sposarsi tra loro) stanno tentando di rovesciare la realtà del rapporto di forza che esiste, da sempre, tra l’adulto e il bambino, nell’ambito del quale il secondo e non il primo ha maggiore bisogno di protezione.
Non sappiamo in anticipo come ciascun essere umano giocherà la sua partita della vita, ma sappiamo da dove ciascuno comincia a giocarla: nascendo da un padre e da una madre. Siamo tutti consapevoli che eventi accidentali talvolta privano l’essere umano del legame con le sue radici, con uno o entrambi i genitori; ma risale alla notte dei tempi la consapevolezza collettiva del profondo dolore generato da quella mancanza. Ed è proprio questa consapevolezza ad avere maturato nelle legislazioni internazionali e nazionali regole e meccanismi, civili e penali, per garantire – per quanto possibile – che nessuno sia privato intenzionalmente di quel primo, indispensabile capitale che sono, per ciascuno di noi all’inizio dell’avventura della vita, il padre e la madre.
Se il nostro Paese, come già hanno fatto alcuni altri Paesi, dichiarerà per legge che le coppie dello stesso sesso sono omologabili al matrimonio, saranno annientate in un solo colpo la differenza sessuale, la paternità e la maternità, il diritto dei bambini a conoscere ed essere educati dai propri genitori naturali, di avere una madre ed un padre, malgrado quanto affermato da importanti convenzioni internazionali sottoscritte da tutti i Paesi del mondo.
Ecco cosa mi spinge a contestare la proposta di legge Cirinnà: il mio senso della giustizia che mi suggerisce, anzitutto umanamente e poi anche cristianamente, di amare il mio prossimo e di collaborare perché sia dato “a ciascuno il suo”: oggi sento, in particolare, che il mio prossimo bisognoso di amore sono i futuri figli dei miei figli e tutti i bambini che ancora devono nascere, ai quali rifiuto di negare il diritto ad avere mamma e papà.
13 gennaio 2015